Charlie Hebdo», Copenaghen, il Canada,l’Australia: fino all’accoltellamento di Milano
Pensavamo di cavarcela con una passeggiata di un milione di persone sui boulevard di Parigi, nel gennaio scorso, dopo la carneficina del «Charlie Hebdo». Tutti insieme, tutti «Je suis Charlie» e dopo dimenticare, rimuovere, scusarsi: «Se la sono andata a cercare». Poi è successo a Copenaghen, quando un convegno sulla libertà d’espressione è stato attaccato da un commando armato, e abbiamo fatto finta di niente. Avevamo fatto finta di niente anche in Canada, quando ad essere assediato è stato il Parlamento. Ma il Canada era lontano, anche l’Australia era lontana. Anche l’Isis sembrava lontanissimo.
E in Italia, cosa poteva accadere, mica che un ebreo sarebbe stato accoltellato a Milano all’uscita di un ristorante kosher, kosher come il supermercato dove, subito dopo la strage del settimanale che aveva osato pubblicare le vignette su Maometto, un altro massacro ha colpito gli ebrei francesi. E adesso l’apocalisse di ieri sera, di stanotte.
Davvero era così imprevedibile?
Davvero chi diceva che l’Europa stava diventando un campo di battaglia esagerava, fomentava la guerra di religione, seguiva le orme di Michel Houellebecq che pure è costretto a vivere blindato perché l’islamismo fondamentalista non gli perdona «Sottomissione»?
L’Europa è al centro di questa guerra.
E chi la conduce, spargendo sangue lutti e paura, non è un semplice terrorista, ma un combattente di una guerra santa che non conosce confini, così come lo Stato islamico non conosce i confini e le frontiere dei vecchi Stati, dall’Iraq alla Siria, disegnati con il crollo dell’Impero ottomano. Nel giorno della possibile, annunciata morte di Jihadi John, l’esercito dei combattenti fondamentalisti e integralisti che vogliono schiacciare il mondo peccaminoso e satanico degli infedeli fa dell’Europa un bersaglio oramai stabile. Parigi è l’epicentro. La Francia è il terreno molle dell’attacco. Qui hanno assaltato le sinagoghe e le scuole ebraiche. Qui reclutano i militanti dello Jihad globale. E contano sulla solidarietà molle e volubile del mondo nei confronti delle vittime. Solo dopo pochi mesi dal massacro di Parigi, in America un nutrito gruppo di scrittori molto alla moda, capeggiati da Joyce Carol Oates, ha protestato per l’assegnazione di un premio nel nome della libertà d’espressione alla testata di «Charlie Hebdo». Hanno detto che con quelle vignette avevano offeso la religione islamica. Magari non meritavano la morte, ma una sanzione per l’abuso della loro libertà doveva pur esserci. C’è da stupirsi se poi i vignettisti superstiti hanno dichiarato che mai e poi mai avrebbero disegnato altre vignette sull’Islam? C’è da stupirsi se, dopo aver scoperto che ragazzi inglesi erano andati a ingrossare l’esercito dell’Isis, nei musei di Londra hanno prudentemente nascosto quadri che raffiguravano, e non in modo offensivo, immagini del Profeta?
Abbiamo fatto tutti finta di non vedere.
Hanno decapitato un dirigente industriale davanti a uno stabilimento di Lione e hanno lasciato la testa lì, per terrorizzare, come hanno fatto con il povero archeologo che custodiva con cura i tesori di Palmira. Facemmo finta di niente quando in Olanda ammazzarono il regista Theo Van Gogh, il regista di un cortometraggio intitolato «Submission» come il romanzo di Houellebecq, prima sparandogli e poi colpendolo ritualmente con un coltello, con un foglio in cui si diceva che questo era il destino di chi avesse avuto la temerarietà di criticare l’oppressione della donna nei Paesi islamici. C’è bisogno di ricordare che nessun festival cinematografico ha voluto proiettare il cortometraggio di Van Gogh?
Ci spaventiamo a morte per le bandiere nere del califfato che sventolano nella Libia oramai frantumata, un tratto di mare di distanza dalle coste italiane. Ma speriamo sempre che quello che accade nel cuore dell’Europa, sino alla catastrofe ultima di Parigi, non sia già il segno di un allargamento illimitato del conflitto. Speriamo sempre che la guerra non oltrepassi la soglia del pericolo. Speriamo che la distanza fisica non venga annullata dall’internazionale del terrore.
Non capiamo perché sono presi a bersaglio simboli ebraici, esseri umani ebrei, luoghi di culto ebraici. Perché stentiamo a capire che l’«ebreo» è il nemico numero uno che secondo la visione dei fondamentalisti deturpa la purezza della terra sacra dell’Islam. E anche i simboli cristiani vanno colpiti. E le sale dove si tengono concerti, perché la musica è peccaminosa. E anche gli stadi, perché si permette alle donne di assistere alle gare senza velo. Non è una supposizione: è quello che dicono. Lo dicono in Francia, in Gran Bretagna, in Danimarca dove è partito il tumulto per le vignette su Maometto e dove un vignettista è stato raggiunto in casa da un gruppo di assalitori armati d’ascia. E quanta solidarietà aveva ricevuto Salman Rushdie quando il regime degli ayatollah decretò una fatwa ai suoi danni consentendo agli zelanti fedeli sparsi per il mondo di uccidere lo scrittore blasfemo, il bestemmiatore da punire senza pietà? Si poteva capire. Bastava non far finta di niente. Bastava capire perché vogliono colpire Londra, Amsterdam, Parigi. E Milano davanti a una pizzeria kosher.
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